I POETI E LA POESIA SALENTINA

Sulla costa adriatica del Salento, quasi al confine tra le provincie di Lecce e Brindisi, è situata la località di Roca Vecchia, marina di Melendugno, posta tra San Foca e Torre dell'Orso. Sede di numerosi scavi archeologici che hanno permesso il ritrovamento di numerose testimonianze del passato, questa località è nota per la “Grotta della Poesia”, una cavità scavata nel corso dei secoli dalla forza del mare, in tempo antico rifugio per chi era di passaggio nella zona. Il nome di questa grotta deriva dal termine “posia”, che, in lingua greca medievale, significa “sorgente di acqua dolce”. Il riferimento è alla fonte che nei secoli passati scorreva all’interno della cavità, i cui segno sono tutt’oggi visibili.

Tutti, però, pensano che il termine stia a significare “poesia” e sia legato ad un’antica e suggestiva tradizione che si tramanda di padre in figlio da secoli. Si narra che una bellissima principessa usava fare il bagno nelle acque della grotta; la notizia della sua presenza si diffuse ben presto in tutto il territorio, tanto da indurre i poeti della zona a recarsi ad ammirare la ragazza e comporre versi d’amore per lei. Da qui, appunto, “grotta della poesia”.

La leggenda della grotta della poesia, a cui crediamo fermamente, ci dà lo spunto necessario per potervi proporre alcune poesie dei più grandi poeti salentini.

Vittorio Bodini

il capogruppo dei futuristi leccesi, è un poeta che ha molto arricchito il panorama letterario del Novecento. Nato a Lecce, ha sempre vissuto un rapporto molto ambiguo con la sua terra, come si evince dalla poesia dedicata a Leuca. Un legame molto intimo per via delle sue origini, ma sofferto per la lontananza – ha vissuto per un periodo molto lungo in Spagna e in altre città italiane – e lo stato di abbandono in cui spesso versa il Sud. 

Finibusterrae
Vorrei essere fieno sul finire del giorno
portato alla deriva
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
in un’aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un’ora
che è peggio solo morire, e sola luce
è accesa in piazza una sala da barba.
Il fanale d’un camion,
scopa d’apocalisse, va scoprendo
crolli di donne in fuga
nel vano delle porte e tornerà
il bianco per un attimo a brillare
della calce, regina arsa e concreta
in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro.
È qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno
col cappello in testa.

Le mani del Sud
Hai fatto bene dice a non parlarmi del Sud del
Sud e delle sue brulle capre saltellanti
di scoglio in scoglio
O le pallide mani delle capre del Sud
Hai fatto bene dice a non parlarmi del Sud deL
Sud e delle sue capre per metà divorate
dallo StatO. 
O le candide unghie delle capre del Sud
Hai fatto bene dice a non parlarmi del Sud del
Sud e dei suoi orizzonti un tempo aperti
da ogni lato
O le pallide unghie con cui ciascuno si dilania nel Sud
Hai fatto bene dice a non parlarmi del Sud del
Sud e dei suoi braccianti uccisi dalla
polizia
O le pallide mani un po' grassocce dei TribunalI
del Sud gli olivi dal cuore umano l'accusare
e accusarsi senza pietà Il grande Sud delle
questioni di principio
Hai fatto bene a non parlarmi del Sud 

Con questo nome
Amore, cosa chiamo con questo nome

io non sono più certo di sapere.
Se ricerco nel fondo ove s’immerse
il tuo quieto naufragio,
fra i denti degli squali, di quelle sabbie gelosi,
presto riemerge il mio pensiero nudo
al visibile giorno,
con le braccia ferite e qualche filo
d’alga sul corpo, o i ciechi segni d’una medusa.

Ma a sera, se col passo delle fiere
che convengono caute presso lo stagno,
fra gli azzurri veleni che mesce il cielo,
in me come a tremante vetro s’affacciano
le antiche colpe, o errori, o la presente
solitudine, oh allora, come sei
tu stranamente viva sulle mie labbra,
e che stupiti altari la mia voce
odono che si scolpa nelle tenebre
a mia insaputa: O amore, tu sapessi…